coppa Davis
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SuperNews ha intervistato Giorgio Galimberti, ex tennista professionista, con un best ranking nel singolare a ridosso della Top 100 ATP (numero 115) e vicino alla Top 50 in doppio (65esimo posto). Titolare della Nazionale azzurra per diversi anni, oggi “Galimba” dirige con successo una sua accademia di tennis, la Galimberti Tennis Academy, a Cattolica. Conduce il programma “Circolando” su SuperTennis, ed è stato in passato anche commentatore per Sky Sport.

In carriera hai affrontato e battuto tanti giovani tennisti che sarebbero in seguito diventati Top 10: penso a Ivan Ljubicic, Radek Stepanek, Joachim Johansson, Gael Monfils, Gilles Simon e Marin Cilic. Vedendo poi come si è evoluta la loro carriera, cosa pensi ti sia mancato per fare quello step in più che ti avrebbe permesso di entrare nell’élite del tennis mondiale?
Credo di essere stato superficiale sotto certi aspetti tecnici. Sul dritto, che è un colpo importantissimo nel tennis maschile, non ho mai accettato di mettermi lì e lavorare tecnicamente, apportando anche dei cambiamenti drastici. La volée e il rovescio mi venivano naturali. Avevo un discreto servizio, però il dritto era un colpo molto altalenante, che nella “giornata no” era il primo a scricchiolare. (…) Per me diventare forte voleva dire entrare nei primi 50, perché se sei in quella zona di classifica hai l’obbligo di giocare determinati tornei, molto duri, e ci vuole una base veramente molto solida di tennis. Credo che la parte tecnica sia stata quella che ha vacillato di più. Di conseguenza, anche la parte tattica è rimasta sempre un pochettino più difensiva-conservativa, invece che offensiva. Mi avrebbe aiutato tirare fuori le mie qualità, e quindi il gioco a rete, la predisposizione all’attacco. Stando fuori dal campo per tutelare il mio dritto, questo mi ha un po’ tagliato le gambe, ma col senno di poi è troppo facile. (…) Anche il non saper essere capaci di mettersi in gioco e fare dei lavori tecnici, magari perdendo anche un paio di mesi, è un limite di un giocatore, e io penso di aver avuto anche questo limite.

Nel Challenger di Monza del 2005, dopo aver superato il primo turno contro il belga Steve Darcis, si presenta sul tuo cammino un giovane ragazzo serbo ancora minorenne e allora numero 153 del mondo. Ti lascia appena 2 game, vincendo 6-0 6-2. Quel ragazzo era Novak Djokovic e sei anni più tardi, nel 2011, sarebbe diventato numero 1 del ranking. Ti chiedo se hai qualche ricordo di quell’incontro e se ti aspettavi che sarebbe poi diventato una leggenda del tennis.
Leggenda era difficile prevederlo, però che fosse era un predestinato si vedeva lontano un chilometro. Con Djokovic giocai ancora prima di Monza, nell’ultimo turno di qualificazioni nell’ATP di Bucarest, e mi ricordo che dissi a Fanucci: “Vabbè dai, domani gioco contro un ragazzino, ha 16 anni, una passeggiatina”. Persi 7-6 6-4, però lì il serbo era ancora più acerbo. Già a Monza era numero 150 del mondo ed era un giocatore che si prendeva con le pinze. Sapevamo che era soltanto questione di tempo. Il numero 150 non era il livello di Djokovic a quell’età, era già molto più avanti, però ovviamente ci vuole tempo per costruire una classifica. (…) Comunque i giocatori predestinati, quelli che hanno una marcia in più, li percepisci dentro e fuori dal campo, come Alcaraz in questo momento, ad esempio. Lo spagnolo è un giocatore che, ahimè, mi vien da dire che forse mi strabilia di più del nostro Sinner. Diciamo che, secondo me, in questo momento i due giocatori giovani che vanno a braccetto per contendersi il posto da numero 1 del mondo sono loro due. Alcaraz aveva tutte le carte in regola per diventare un campione già un anno/un anno e mezzo fa. Io l’ho visto anche prima, a 15 anni, ed era già un fenomeno. I predestinati si vedono. Noi abbiamo un giocatore che secondo me è un predestinato sicuro, ovvero Nardi, che ha vinto a Lugano questa settimana. (…) Lì c’è una qualità tecnica all’ennesima potenza, e ora si sta mettendo anche un po’ più sotto a livello di allenamenti, mentalmente e come programmazione. È un ragazzo che ha un’altra marcia rispetto ai giocatori da Challenger. (…) I nomi che hai citato prima sono tutti di giocatori che, prima di diventare forti a livello Challenger, avevano già un’altra marcia.

Volendo fare un parallelismo con il mondo del tennis a cavallo tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni 2000 e il mondo del tennis attuale, come pensi che sia cambiato l’allenamento degli atleti non solo per quanto riguarda gli allenamenti con la racchetta, ma anche a livello di preparazione fisica?
Nel campo da tennis, ti dico la verità, si fanno sempre le stesse cose. (…) Tante volte, sempre la stessa roba, sempre fatta meglio, tirando più forte, stando più vicini alla riga e sbagliando di meno, però alla fine le cose sono quelle. È cambiato sicuramente il modo di giocare a livello tattico. Rispetto agli anni ‘90, tantissimo. Basti pensare a quanta gente faceva “serve and volley”, cosa che è impossibile fare al giorno d’oggi. Questo perché si è alzata in modo mostruoso la capacità di rispondere bene dei giocatori. Non è che servono peggio, anzi, servono meglio. Proporzionalmente, è la risposta che è cambiata tanto negli anni. Le superfici sono più lente, anche indoor hard sono superfici lente, e la palla torna sempre indietro. Molta gente che giocava nel 2000 gioca ancora oggi. Nadal aveva 18 anni ed era numero 2 del mondo nel 2005, e ancora oggi gioca ed è performante. Sicuramente si è un po’ adattato, ha cambiato qualcosa, ma non ha stravolto il suo tennis, magari lo ha migliorato qualitativamente. Quindi non noto una grande differenza dagli anni 2000-2010 ad oggi. Dal punto di vista fisico, una volta si era un po’ più dei “trattori”. Tanta quantità, e se sopravvivevi bene, altrimenti ti spaccavi. Adesso c’è un po’ più di medicina, di fisioterapia, di prevenzione per cercare di tutelare l’atleta, e diciamo che gli infortuni sono sempre minori. Negli anni ‘90 e anche 2000 le operazioni alla spalla erano all’ordine del giorno. Oggi sono nettamente meno, perché c’è dietro sicuramente più scienza rispetto ad una volta. I volumi sono sempre tanti, tocca allenarsi molto per eccellere.

Nella tua carriera hai vestito per diversi anni la maglia della Nazionale, togliendoti anche delle grandi soddisfazioni, come la vittoria nel 2005 a Torre Del Greco in coppia con Daniele Bracciali contro Rafael Nadal e Feliciano Lopez. La stessa Nazionale che poi hai avuto modo di seguire, assieme a Corrado Barazzutti, fino allo scorso anno. Ad oggi l’Italia può contare su una rosa di altissimo livello. Ti chiedo dunque se credi che potrebbe arrivare, non solo quest’anno ma anche magari nei prossimi, la tanto attesa vittoria in Coppa Davis, che manca ormai dal 1976.
Abbiamo assolutamente le carte in regola per farlo. Bisogna fare quello che non è stato fatto l’anno scorso, ovvero la costruzione di un doppio. Oggi Bolelli-Fognini stanno dimostrando che questa coppia era quella che poteva fare la differenza. Se pensiamo che in prima convocazione Filippo non aveva nemmeno convocato Bolelli, probabilmente non aveva tenuto veramente conto che in una partita giocata su tre incontri (due singolari e un doppio), il doppio è veramente pesante. Non è come su cinque match, su tre match fa veramente la differenza. Ho ambito tantissimo ad essere capitano, ma poi è stato scelto Filippo Volandri, che è molto bravo con i ragazzi. Sicuramente dovrà parlare con i giocatori e far sì che in questa stagione due coppie giochino costantemente insieme per costruire affiatamento e per presentarsi in Davis non con una, ma con ben due coppie. Se salta un giocatore, poi ti devi arrabattare. Visto che hai la possibilità di convocarne cinque, devi riuscire ad avere un piano b sia in singolare che in doppio. Non ci possiamo permettere le convocazioni per far fare esperienza: dobbiamo fare delle convocazioni per vincere gli incontri. Musetti, nonostante sia un grandissimo giocatore e un bravissimo ragazzo, nell’economia della squadra quando ci sono Berrettini, Sinner, Sonego e un eventuale Fognini come quarto, forse non è da preferire a Bolelli, che ti dà la possibilità di avere due doppi. Un doppio che è Fognini-Bolelli, poi un Fognini-Berrettini oppure Berrettini-Bolelli. Musetti a Torino ha giocato un doppio, ma diciamo che in singolo probabilmente non sarebbe mai entrato in campo. Un giocatore non deve fare l’esperienza in Davis, la Davis va meritata. Se uno ha deciso di lavorare bene in singolo, uno ha deciso di lavorare bene in doppio, noi dobbiamo mettere in campo la miglior squadra. Credo che il doppio sarà quello che farà la differenza. Penso che possiamo vincerla assolutamente. Abbiamo giocatori fortissimi, se stanno bene fisicamente zero problemi. Possono battere chiunque.

Con il tuo programma su SuperTennis, “Circolando”, hai potuto visitare tante realtà tennistiche in giro per l’Italia. Oltre ai più noti Sinner, Musetti e Cobolli, che sicuramente avrai visto giocare, quali giovani tennisti azzurri ti hanno maggiormente impressionato e pensi che potrebbero avere una grande carriera in futuro?
Cobolli è un ottimo giocatore, credo che possa salire in classifica. È un lavoratore molto serio, fisicamente forte e dotato a livello motorio, perché giocava nella Roma Calcio. (…) È un ragazzo determinato, meno talentuoso di Nardi, ma ugualmente con delle grandi qualità fisiche e tecniche. Può far bene. Zeppieri è un altro che sto aspettando. È un mancino che serve da paura, ha un rovescio pazzesco e ha sistemato tantissimo il suo dritto. È un giocatore offensivo, cresciuto insieme a Musetti. Sono convinto che anche lui possa arrivare. Sono questi i tre che in questo momento mi piacciono di più, però devo dire che abbiamo veramente un movimento valido dietro (ad esempio anche Arnaldi). Ne abbiamo di terze fasce. (…) Ci sono tanti ragazzi, il movimento maschile è ora in un momento florido. Vengono su come funghi i giocatori buoni. È un sistema che sta funzionando ed è trainante. Sto aspettando le donne. Le donne hanno avuto, dopo il grande periodo, un buco generazionale e si sono persi i riferimenti. (…) In questo momento il tennis femminile è molto criticato ed è anche difficile per i giovani performare, perché la pressione può arrivare non dal fare i risultati, ma dal fatto che si parli negativamente di un settore, come in questo caso il settore femminile. Il peso lo sentono anche i giocatori nuovi che cercano di venire fuori.

A Miami è arrivato un ottimo risultato per il tennis femminile italiano con gli ottavi di finale raggiunti da Lucia Bronzetti, che fanno seguito al terzo turno colto la settimana scorsa ad Indian Wells da Jasmine Paolini. Che prospettive vedi nel futuro delle azzurre, non solo in ottica Fed Cup, ma anche in generale nei tornei WTA e negli Slam?
Lucia Bronzetti è una giocatrice lavoratrice. L’evoluzione della sua classifica la dice lunga. Non c’è stata mai un’impennata, è stata una crescita graduale figlia del lavoro, super professionale, super professionista. Fisicamente preparata e disposta a mettersi in gioco. Sempre in viaggio, con una programmazione fitta di tornei. È un esempio. È l’esempio che il lavoro paga. Ha delle buone doti tennistiche, ma non la riesco a vedere come il fenomeno, il talento. La vedo più come una giocatrice intensa. (…) È lucidissima dal punto di vista tattico, sa quali sono i suoi pregi e i suoi difetti e li usa al meglio. Sta crescendo, però faccio fatica a pensare che la Bronzetti possa diventare una giocatrice alla Pennetta, Schiavone, Errani. È una buona giocatrice. Chi ha i numeri veri è la Giorgi, ma ormai il tempo passa e purtroppo questi numeri stanno svanendo nel nulla. Ha un’ottima classifica, intorno al numero 30 del mondo, però dovrebbe stare tra le prime 5 del mondo solo per la sua fisicità. La Paolini ha un talento pazzesco. Dietro di loro, però, non vedo molto. Lucia è venuta fuori ed è ottimo, però poi dopo cosa abbiamo? Su cosa puntiamo? Non lo so, faccio un po’ fatica. Credo che siano ancora in un momento di limbo. Tuttavia, Lucia ha fatto questi risultati che rincuorano un po’ le persone che stanno aspettando dei risultati da parte dalle ragazze.

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