di Alessandro Tozzi
Ma chi cazzo è questo? disse Tonino Zugarelli al console italiano, venuto a rampognare i giocatori italiani dopo una rissa di Panatta con dei tifosi sugli spalti. E quando gli dissero chi era aggiunse: meglio che te ne vai, se no menamo pure te.
L’Italia che vince la Coppa Davis nel 1976 non so se fosse una squadra, come il titolo del film, ed anzi alcuni passaggi del documentario farebbero pensare di no, ma certamente era formata da grandi personalità un po’ matte, figlie di un tennis anni ’70 ancora naif.
Ho un ricordo lontano, ultimo giorno di scuola prima di Natale, con la maestra che legge articoli del giornale, e ci racconta della vittoria italiana in Cile, dopo le polemiche tutte italiane se andare o non andare a giocare la finale, per boicottare il governo di Pinochet.
Fortunatamente andammo, auspice il capitano Nicola Pietrangeli, un 88enne in forma straordinaria, come è in grande forma è Adriano Panatta di anni 72, che sembra il figlio di Loredana Bertè con la quale ebbe una liason 50 anni fa.
Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli: l’Italia della Davis, 4 finali in 5 anni, tutte fuori casa, una vinta e due molto combattute in Australia e in Cecoslovacchia, dove ci rubarono diverse chiamate arbitrali, non esisteva niente all’epoca, solo un giudice arbitro straniero che non aveva spesso la forza per fare continui over rule dei furti degli arbitri di linea autoctoni.
In panchina un mito come Nicola Pietrangeli, dietro le quinte il guru Mario Belardinelli: fra tutti parliamo della encicopledia del tennis italiano, che per 40 anni è rimasto ancorato a loro, almeno fino all’arrivo dell’ultima generazione di tennisti (uomini almeno, che Schiavone, Errani, Vinci e Pennetta ci hanno dato grandi soddisfazioni), da Fognini, a Berrettini a Sinner, che hanno fatto ritrovare agli italiani la passione per il tennis.
Troppo lontani i tempi del Foro Italico, quel catino infuocato come una curva calcistica che urlava al mondo “Adriano, Adriano”, inneggiando al suo eroe.

Adriano che oggi, come 50 anni fa, è il re dei cazzari, figlio del custode del Parioli.
Fantastico il suo aneddoto di un doppio contro gli inglesi giocato a Wimbledon, dove si incaponì per 5 set a giocare sul dritto di David Lloyd, suo unico colpo decente, perchè era brutto e storto (testuali parole), e aveva bisogno di una lezione: inutile dire che perdemmo quella partita dopo 5 match point, e Bertolucci che voleva ucciderlo in campo.
Altri tempi, altri ritmi, altri uomini, oggi tutto questo sarebbe impensabile, all’epoca si giocava di fioretto con la racchetta di legno, oggi si tirano mazzate a 200 all’ora, e ogni turno passato di un grande slam equivale al reddito annuale di un tennista 50 anni fa, ed era già un passo avanti rispetto al tennis senza scopo di lucro dei tempi di Pietrangeli.
Dovrebbero proiettarlo nelle scuole il docufilm, per far entrare i ragazzi dietro le quinte dello sport, le uniche ad oggi poco esplorate, mentre sono quelle che spesso ti farebbero amare quella disciplina.
“Paolo, domani mettiamo la maglietta rossa”, dice la sera Adriano a Bertolucci, e Paolo per quieto vivere accetta, anche perchè quella finale “l’avrei giocata pure nudo”.
Quel doppio vincente, di rosso vestito, nel Cile di Pinochet del 1976 è rimasta metafora di qualcosa di più.
Ma chi cazzo sono questi? avranno forse pensato migliaia di cileni vedendoli vestiti di rosso quel pomeriggio, quasi sfidassero i tori nell’arena, mentre gli sfilavamo quella che sarebbe rimasta l’unica Coppa Davis della nostra vita.
Sono una squadra.

Articolo precedenteProtocollo d’intesa tra Lega navale italiana e Consiglio nazionale ingegneri
Prossimo articoloGiacomo Scattolon al “via” della Targa Florio