SuperNews ha intervistato Massimo Rastelli. L’allenatore ed ex attaccante, classe 1968, in carriera ha indossato, tra le altre, le maglie di Lucchese, Piacenza, Napoli, Reggina, Como e Avellino. Alla prima stagione da allenatore, nel 2009, riporta la Juve Stabia in Serie C1, successivamente conquista la promozione in Serie B con l’Avellino e la promozione in Serie A sulla panchina del Cagliari. Dopo aver allenato Cremonese e Spal, il 30 agosto 2021 subentra sulla panchina del Pordenone, in Serie B, al posto dell’esonerato Massimo Paci. Il 16 ottobre, dopo aver raccolto un punto in sei partite e con la squadra all’ultimo posto, viene esonerato. Rastelli ha ripercorso le tappe più importanti della sua carriera, con uno sguardo rivolto all’attuale situazione calcistica.

Massimo, da calciatore arrivi a Napoli nel 2001 in Serie B, sotto la gestione De Canio. Gli azzurri avevano come obiettivo la promozione in massima serie, poi sfumata. Che ricordi hai di quel campionato e del pubblico partenopeo?
Quella stagione non andò bene come avremmo voluto. Partimmo a rilento, a causa delle scorie della recente retrocessione e, nonostante la grande rincorsa e un ottimo girone di ritorno, le altre davanti andavano fortissimo e non perdevano mai colpi. Indossare la maglia del Napoli, anche se per un solo campionato, è stata sicuramente una grandissima emozione. Ricordi del pubblico partenopeo? Ho giocato in Serie B davanti anche a più di 70mila spettatori. Ricordo uno stadio San Paolo gremito contro Salernitana, Reggina e Messina, un calore e una passione davvero impressionante.

Cosa è mancato al Napoli per competere fino alla fine per lo scudetto? Pensi che la squadra venga meno proprio nei momenti decisivi?
In effetti, nel momento in cui si alza la posta in palio e l’obiettivo è a portata di mano sembra che la squadra non riesca più a gestire la situazione. Al contrario, ad esempio, di quanto fatto dal Milan, che ha saputo affrontare la pressione esterna, rialzandosi anche dopo qualche risultato negativo. Penso che si tratti per il Napoli della mancanza di un vero leader all’interno dello spogliatoio. Nei momenti delicati chi ha più personalità riesce a trascinare il gruppo e a far sentire tranquilla la squadra. In questo Napoli, ricco sicuramente di talento e di qualità, manca un uomo di spinta e di carisma. Quest’anno è stata persa una grande opportunità. Ci si aspettava almeno di potersi giocare lo scudetto fino alla fine. Forse, ad un certo punto, potevano essere fatte scelte diverse, ma non credo che Spalletti abbia responsabilità maggiori rispetto ai calciatori e a tutto lo staff tecnico e dirigenziale.

Dopo dieci anni Lorenzo Insigne ha lasciato il Napoli. Come giudichi la scelta del capitano azzurro di trasferirsi al Toronto? Essere “profeti in patria” nel mondo del calcio è davvero così difficile?
Insigne non avrebbe mai lasciato il Napoli per giocare in un’altra squadra italiana, ma nel momento in cui arriva una proposta così importante da un campionato come la MLS, penso che la decisione sia stata presa anche a cuor leggero. In questi dieci anni credo abbia dato il meglio di sé. E’ un peccato che in questo lungo lasso di tempo si sia avvicinato soltanto un paio di volte allo scudetto, senza mai potersela giocare davvero fino in fondo. Quando ci tieni troppo, il peso della responsabilità è quintuplicato rispetto a qualsiasi altro calciatore. Sei napoletano, vivi a Napoli, senti tutto e assorbi tutto. Il tifoso da te pretende sempre di più. Lui è stato bravissimo ed ha sempre fatto la differenza. Mertens? Vorrebbe finire la carriera a Napoli, credo possa restare in maglia azzurra. Nei pochi minuti in campo ha sempre fatto benissimo. Lui ormai è un figlio di Napoli, penso che si possa raggiungere un accordo per continuare assieme.

Da allenatore anche la gioia della promozione dalla C alla B con l’Avellino e dalla B alla A con il Cagliari. Che sensazioni si provano a vincere un campionato?
È un grande orgoglio aver vinto subito nei primi sei-sette anni della mia carriera da allenatore ben tre campionati, compreso quello con la Juve Stabia. Tutti vinti con la squadra prima in classifica, senza mai dover passare per i playoff. Ho vinto dalla C2 alla Serie B, sono felice di questo. Si tratta di emozioni davvero forti, sensazioni uniche, che ti porti sicuramente dentro. Finire da primi in classifica rappresenta il coronamento di un’annata fatta di insidie, difficoltà e duro lavoro. Ovviamente, la carriera continua e non è possibile cullarsi sugli allori. Guardo al futuro, con l’obiettivo di fare bene con le prossime squadre che allenerò.

Hai allenato la Cremonese tra il 2018 e il 2020, ti aspettavi la promozione in Serie A da parte dei grigiorossi?
La Cremonese è una squadra forte. Aveva quest’anno una rosa composta da ventidue-ventitré titolari. Un mix perfetto tra giovani di talento e calciatori d’esperienza. La squadra aveva la freschezza e la maturità per gestire qualsiasi momento. Hanno fatto capire a tanti che c’è bisogno di programmazione e pazienza per vincere. Soprattutto, la Cremonese con Ariedo Braida ha insegnato che non serve prendere calciatori solo per il “nome”. Davvero un ottimo lavoro da parte di Fabio Pecchia e di tutta la società. Fin dall’inizio pensavo potessero fare un campionato di vertice e così è stato.
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