Luciano Spalletti
Luciano Spalletti

Hai voglia a parlare di rivincita, riscatto, cancellazione d’un quinquennio, l’ultimo, fatto di delusioni roventi e mere consolazioni. E qui non c’entra la gestione a stelle e strisce della Roma, il quinquennio in questione è solo un punto di partenza, ma se ne possono trovare mille altri, nel tempo, di “start and go” per cercare di analizzare un certa questione a tinte giallorosse. Subìto il pareggio in rimonta di Cagliari, successivo all’eliminazione-Champions, sui social (valvola di sfogo per chiunque, giudici veri e fittizi, cronisti reali o inventati, gente da bar dello sport e luminari della scienza e della tecnica) s’è scatenata la consueta gazzarra, figlia d’un malcontento evidente e a volte teleguidato, ma forse mi sbaglio. Al Sant’Elia la squadra di Luciano Spalletti (la cui immagine da genuflesso a terra dopo il triplice fischio di Mazzoleni la dice lunga sullo stato delle cose) ha vissuto una serata da incubo sbagliando il possibile e cercando l’impossibile, mostrando limiti impressionanti di una squadra che fatica a segnare e che in difesa, se attaccata alta, diventa vulnerabile.

Ha segnato Marco Borriello, ed è un classico, perché il gol dell’ex arriva sempre, e allora ti viene in mente, fanciullescamente parlando, che se all’ex di turno gli francobolli uno che lo segue pure quando va in bagno, magari quel gol lo puoi evitare. Ma, ancor più grave, ha segnato Marco Sau. che è uno dei migliori prodotti sardi, questo si sa. Ma Sau, alto un metro e sessantanove, segna di testa, e allora ti interroghi sul “che bisogno c’è di avere i corazzieri in difesa se una punta tascabile t’infila col capoccione?”. Che poi, a riveder il passato, Sau fino a oggi ha segnato due gol alla Roma e anche il precedente sigillo arrivò di testa, stadio Olimpico, nel 2-4 che decretò l’esonero di Zeman e lo scoramento generale per le papere di Mauro Daniel Goicoechea, capace di offuscare perfino saponetta Mattolini col più goffo degli interventi sul gol del raddoppio isolano. Ma anche l’uscita di Wojciech Szczęsny in stile “portiere di squadra da pallamano” sul secondo gol dei rossoblu (il centesimo del Cagliari prodotto contro la Roma) deve far pensare che Zamora era tutta un’altra storia. Processi a non finire, e sul banco degli imputati spesso salgono i romani. Totti, De Rossi, Florenzi. Sembra strano, quasi assurdo che in una città così evocativa e nel cuore di una tifoseria così viscerale non riescano a far breccia quelli nati alle pendici di Monte Mario. Ma del resto furono contestati pure Di Bartolomei e Giannini, altrettanti figli di Roma che indossarono la fascia da capitano. Forse è nel dna della romanità l’incapacità di saper salvaguardare il prodotto autoctono, basti pensare alla morte di Giulio Cesare, cagionata da gente romana e non da forestieri. Per tacere del poco attaccamento che hanno certi romani verso la propria città… proprio l’altra sera su Facebook c’era la foto di un tizio che scaricava mondezza al lato d’una strada…. poi, appurato chi era, s’è andati sulla sua bacheca social a leggere frasi del tipo “Roma è caput mundi”, “Roma città eterna” e “noi romani dobbiamo difendere la nostra città dagli scempi della politica”. Dice, tornando al calcio… “ma Florenzi ha sbagliato la diagonale”, “De Rossi è nevrastenico in campo”, “Totti è vecchio, andasse in pensione”. Di Ago si diceva che era lento, di Giannini che si specchiava troppo quando giocava. Forse non c’è speranza, qui anche se si conquisterà il quarto scudetto usciranno allo scoperto “bastian contrari” pronti a criticare. Un po’ come la stampa di sinistra che accusava Berusconi e quella di destra che palesa le difficoltà di Renzi. “E’ l’Italia che va, con le sue macchinine vroom-vroom” cantava Ron, e l’istantanea è quanto mai sintomatica e identificativa d’un popolo sempre scontento, infelice per partito preso.

Non m’azzardo a paragonare la tragedia del terremoto a fatti di calcio, ma se le critiche e le parole a vanvera riescono ad accompagnare il sisma reatino-marchigiano, figurati se queste non possono campeggiare nelle storie di pane e pallone che accompagnano la quotidianità d’un 2016 che ha portato drammi inenarrabili, che un pareggio in terra sarda diventa una barzelletta. Frasi fatte, banali e retoriche, chiacchierate in libertà e quel senso d’impotenza più unico che raro che accompagna un football ampolloso e sbadato come quei dirigenti che ostentano la solidarietà ai popoli colpiti dal sisma dimenticando di raccontare che quei soldi, quelle percentuali d’incasso, vengono dal portafoglio dei tifosi. Come quel dirigente che dice “noi abbiamo pensato ai bambini” e poi, invece di farli entrare gratis magari in una sera dove il pubblico serve per impaurire il Porto, costringono i padri a tirar fuori cento euro per un paio di distinti. Ecco, i dirigenti, se non dipende da loro, il malessere romanista, da chi dipende? Fanno i forti con la stampa che prova a criticare e sono deboli con i milionari del pallone. Specie a Roma, che calcisticamente parlando somiglia molto alla Ferrari attuale. Mille proclami e poca sostanza.

 

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