L’atletica e i giorni. 6 agosto 1995. Giusto un quarto di secolo alle spalle. Una domenica, una benedetta domenica per l’atletica azzurra, indimenticabile parentesi di caldo secco e sole pieno, attorno e dentro l’Ullevi di Göteborg, in quella che i francesi, amanti delle etichette opportunamente riempite di retorica, avrebbero chiamato la gloriosa giornata. O gli inglesi, più secchi e incisivi, Golden Sunday. Le ore di Michele Didoni e di Fiona May.

Tutto cominciò nel primo pomeriggio, con la 20 km di marcia. I cinesi dai passetti affrettati venivano da tempi sensazionali: Bo venne squalificato, Chen si squalificò da solo, schiantato dalla fatica, improvvisamente, come gli avessero tolto la corrente. Didoni, che in mezzo a tanti emaciati, sembrava un Ercole, un colosso, domò tutti quanti, andando giusto per un secondo sotto l’ora e 20: il piccolo Massana arrivò a 24 secondi, Shchennikov dall’azione… disordinata, a 2 minuti abbondanti.

Il tempo passava e qualcuno, con educazione, sottovoce, cominciava a mormorare che sarebbe stato meglio mollare Michele e tornare in tribuna perché stava per cominciare il lungo. È noto come andò a finire. Dopo l’eurobronzo dell’esordio italiano, un anno prima a Helsinki, ora Fiona May aveva fatto il colpo grosso atterrando a 6,98 su una sabbia che stava per offrire i prodigi, ancora non intaccati, di Jonathan Edwards e di Inessa Kravets.

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