di Alessandro Tozzi
Per la nostra generazione Bobby Charlton è un nome, una maglia, una leggenda di un calcio, come quello inglese, che vinse l’unico titolo della sua storia nell’estate del ’66, quando la Regina d’Inghilterra era Pelè, cantava Venditti, e non senza la polemica di un gol-non gol ai tempi supplementari.
Bobby Charlton, classe 1937, non era nemmeno capitano di quella squadra, il capitano era Bobby Moore, ma certamente ne era l’anima, venendo premiato nel 1966 col Pallone d’Oro.
La sua carriera è tutta al Manchester United, dai 19 anni ai 36 anni, con 249 gol, che ne fanno il secondo per presenze dietro a Giggs, e il secondo marcatore di sempre dietro a Rooney, entrambi figli di un altro calcio.
Charlton, fratello di Jackie mister dell’Irlanda per tanti anni e rude stopper, era un centravanti di manovra, che nel corso degli anni arretrò gradualmente il suo baricentro, il che non gli impedì di segnare 249 gol con lo United e 49 gol in Nazionale in 106 partite. Storia terminata nel Mondiale 1970 con la sconfitta contro i tedeschi per 3/2, dovuta in gran parte all’assenza di Banks, reduce dalla miglior parata di tutti i tempi su un colpo di testa di Pelè: e chissà che ne sarebbe stato di una semifinale Italia Inghilterra al posto della partita del secolo Italia Germania.
Nel 1958 uscì vivo, insieme a pochi altri, dall’inferno di Monaco: l’aereo che trasportava lo United in Germania prese fuoco, e morirono a bordo 23 persone, fra calciatori, staff e giornalisti; l’allenatore Matt Busby ebbe due volte l’estrema unzione, poi si riprese e portò lo United alla Coppa dei Campioni del 1968, con Best sugli scudi.
Charlton di quell’esperienza ricorda solo che gli cambiò la prospettiva di vita, tanti talenti giovanissimi (i Busby babes) morirono nell’incidente, un paio di sopravvissuti non poterono più giocare a calcio, e certamente sono situazioni che segnano un’intera esistenza, quando capisci che il confine fra la vita e la morte è solo scegliere un posto diverso da un compagno in aereo.
Il comunicato dello United, del quale Bobby è stato anche a lungo dirigente, è laconico: “le parole non sarebbero mai abbastanza”, ma in queste ore ne arriveranno molte, pensiamo, anche se quelli della sua generazione se ne sono quasi tutti andati.
Rimane per noi venuti più tardi un nome, una maglia, una leggenda, ed ora anche qualche filmato su you tube, nel quale lo si vede spaziare per tutto il campo, prototipo del calciatore moderno con le qualità fisiche dei nordeuropei e la fantasia dei latini: un Pallone d’Oro.
Che ricordiamo per la frase, quanto mai attuale in questo periodo di calcio scommesse “Qualcuno mi ha detto che noi calciatori siamo schiavi del calcio stesso. Bè, se questa è la schiavitù, condannatemi a vita.”
Ti sia lieve la terra, Bobby, in qualche angolo dell’Old Trafford, dove fuori c’è già la tua statua insieme a Best e Law (altri due Palloni d’Oro di quegli anni), ti troveremo per sempre.

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