Ogni anno in Italia vengono applicati mediamente 1.200 protesi cocleari e circa 390 mila apparecchi acustici, numeri non da poco ma insufficienti a coprire il fabbisogno degli 8 milioni di pazienti che manifestano disturbi all’udito ma non decidono poi di curarsi. Questi i dati emersi dal workshop “Sordità: il deficit invisibile – una vita piena di suoni per vivere felici”, conclusosi oggi pomeriggio nel padiglione C3 del Meeting Salute di Rimini e organizzato da Cochlear Italia.

Una iniziativa di sensibilizzazione molto seguita (oltre 300 persone in sala) che ha coinvolto alcuni dei più noti studiosi, otorino-laringoiatri e audiologi del panorama nazionale. La prevenzione e la cura della sordità sono fondamentali in età pediatrica, a sottolinearlo è il prof. Domenico Cuda dell’Ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza: “Nella maggior parte dei casi, la sordità dei bambini è profonda e difficilmente la si può curare con gli apparecchi acustici. La soluzione è l’impianto cocleare, un organo di senso artificiale frutto del progresso tecnologico che restituisce al bambino non solo una percezione uditiva quasi normale ma anche il linguaggio. Oggi siamo in grado di diagnosticare già alla nascita l’eventuale sordità, con la possibilità di impiantare il paziente molto presto e di avere così una crescita praticamente normale. Senza la conoscenza dei suoni infatti i piccoli non riescono a sviluppare le loro facoltà linguistiche con i conseguenti rischi legati alla impossibilità di interagire con gli altri e con l’ambiente”.

Secondo il prof. Andrea Franzetti dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo, oltre alla diagnosi e alla terapia chirurgica, per il bambino sono fondamentali le fasi successive all’impianto cocleare: la riabilitazione, il supporto di un logopedista e il counseling psicologo rivolto ai genitori.

Dall’infanzia al mondo degli anziani, fra i quali si registra la maggiore concentrazione dei casi di ipoacusia. “In vari studi abbiamo potuto verificare che la perdita di udito negli over 65 non viene percepita come una patologia da cui proteggersi e curarsi – il commento del dott. Alessandro Castiglione dell’Università degli Studi di Padova – Inoltre, a livello culturale, anche la comunità scientifica tende a classificare l’ipoacusia come disturbo di serie B. Questo non aiuta lo sviluppo di una sensibilità nei confronti della prevenzione e della terapia né contiene la diffusione delle patologie neurologiche tipiche degli anziani, che sono sempre correlate alla perdita dell’udito”.

“Inibizione socio-culturale, paura di ammettere la propria sordità e il rifiuto di sottoporsi a percorsi terapeutici ad hoc (apparecchi o protesi) fanno sì che fra i nostri connazionali più anziani non nasca la voglia di risolvere il problema in modo veloce e minimamente invasivo – spiega il prof. Gaetano Paludetti del Policlinico Gemelli di Roma – Se pensiamo allo svolta modaiola avuta nel tempo dagli occhiali, possiamo affermare che, nel nostro Paese, viviamo gli handicap sensoriali in modo sbilanciato”.

“La tecnologia così come le tecniche implantologiche hanno fatto passi da gigante – conclude il prof. Vincenzo Vincenti della Clinica Universitaria di Parma – Per coloro che sono affetti da ipoacusie lievi, moderate o severe ci sono oggigiorno tutte le possibilità di cura e ripresa di una vita relazionale normale ma, per arrivare a questo risultato, il primo passo spetta alla forza di volontà dei pazienti che debbono abbattere il tabù dell’apparecchio acustico. L’esempio virtuoso che dovrebbe ispirare tutti è quello di Davide Santacolomba, pianista sordo che deve il suo successo anche a quei due dispositivi che indossa, con grande disinvoltura, e che gli consentono di sentire, suonare e comporre la musica”.

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