Penna elegante e cuore granata, abbiamo affidato a Giovanni Berti il compito di raccontare il Grande Torino nel settantesimo anniversario della strage di Superga. 

di Giovanni Berti
Superga, 4 maggio 1949

“Sguardi di operai, contadini e narratori”. Nella primavera del 1949 l’Italia è un paese grigio, in bianco e nero, in cui si fatica e si suda per sbarcare il lunario, per far rinascere un sentimento unitario dalle macerie materiali e spirituali lasciate dal fascismo e dalla guerra. Però, come canterà molto più tardi Leonard Cohen, se è vero che “in ogni cosa c’è una crepa”, è anche vero che “è proprio da lì che entra la luce”. La luce o il colore.
Il colore, che entra nelle crepe profonde della nostra coscienza nazionale straziata e che in qualche modo misterioso affievolisce la durezza del vivere quotidiano, è quello granata e gli sguardi appartengono a una ventina di giovanotti seduti in un aereo; facce di operai e contadini che sanno usare i piedi e la testa, che sono in grado di ammaestrare una palla e che sono capaci di narrare una storia senza bisogno di parlare o di scrivere, una storia che è giunta intatta fino a noi e che si mescola con la leggenda.

“L’eco cupa della guerra in ogni cellula del corpo”. Questi ragazzi, che fanno i calciatori, non sono i professionisti strapagati e viziati dei giorni nostri. Giocano al calcio, è vero, forse sono dei privilegiati, perché guadagnano molto di più degli operai e dei contadini, ma hanno bene in mente cosa significhino la privazione, la sofferenza, mettere insieme il pranzo con la cena.
A quel gioco giocano bene, meglio degli altri – stanno per vincere il quinto scudetto consecutivo, formano l’asse portante della nazionale -, ma non hanno perso contatto con la realtà: anche se in quel momento non ci pensano, sanno che quella “sbornia” finirà presto e che prima o poi dovranno rimboccarsi le maniche in una maniera completamente differente.

“L’allegria infrangibile della giovane età in tutti i movimenti”. Questi giovanotti hanno assimilato alla perfezione il “sistema”, una serie di movimenti da mettere in pratica sul rettangolo da gioco con cui attaccano più che difendere, attraverso il quale costruiscono più che distruggere.
Per gli altri movimenti non hanno bisogno di insegnanti lungimiranti venuti dall’Ungheria o dall’Inghilterra; per divertirsi non necessitano di diventare furibondi come quando, allo Stadio Filadelfia, il trombettiere, imbeccato dal capitano, dichiara l’inizio del “quarto d’ora granata”.

Per gli altri movimenti, per la schiettezza e l’allegria, per quella leggerezza benedetta che è armonia fra corpo e anima, non hanno bisogno di nulla o di nessuno: bastano la giovane età, una buona indole e una semplicità innata.
Questi ragazzi hanno “un fado nella mente”, perché tornano da Lisbona, dove hanno onorato (ancora una volta) il calcio e Francisco “Chico” Ferreira, il capitano del Benfica e della nazionale portoghese; questi ragazzi portano “un bambino nel cuore”, un figlio al quale qualcuno dovrà dire che non rivedrà più suo padre, e conservano nelle orecchie e nella testa “l’urlo della folla”, quello dei quarantamila spettatori dello Stadio Nazionale della capitale lusitana.
Mentre “un orologio pigro” sembra dilatare il tempo che li separa dall’atterraggio, alcuni di loro, forse rimasti ancora un po’ bambini, pensano alla “mamma che sorride nella foto sgualcita che conservano nella tasca destra”. Gli invincibili si rilassano nell’aereo che li sta per riportare a Torino, si riposano “dentro un guscio d’acciaio e di calore”.

“Facce stanche e felici, sempre stupite, uno scherzo tre file più avanti”. Sono sempre dei ragazzi, in fin dei conti, non dimentichiamocelo mai. Sono felici con poco, anche nella noia e nonostante la stanchezza legate a quel viaggio di ritorno che è iniziato alle 9.40 di mattina e che si concluderà solo nel pomeriggio.
Si fanno qualche scherzo, è lecito presumere. Magari prendono in giro bonariamente qualcuno che ha lisciato un pallone facile facile o qualcun altro che si è lasciato sorprendere da un avversario.
“Un giornale che fruscia là dietro, un refuso nell’articolo”. A bordo dell’aereo non c’è solo la squadra, con il suo corollario di dirigenti, allenatori e tecnici, ma ci sono anche tre giornalisti, che sono stati invitati a seguire la trasferta internazionale del Toro. C’è Renato Casalbore, il fondatore e il primo direttore di “TuttoSport”, c’è Renato Tosatti, padre di Giorgio, inviato sportivo de “La Gazzetta del Popolo”, c’è Luigi Cavallero, caporedattore de “La Stampa”.
“Il secondo figlio in arrivo, la prima cosa che faccio…, il divano da comprare”. Un flusso di pensieri sparsi, disordinati, attraversa la testa di qualcuno. Cose da fare, dopo che si rimetteranno i piedi per terra. Progetti piccoli e grandi da realizzare, quando si tornerà a Torino.

“Il capitano si guarda intorno e sorride con benevolenza”. Valentino Mazzola ha trent’anni ed è il capitano degli invincibili. Ha uno sguardo maturo e consapevole, un cuore buono, più di una preoccupazione sul versante familiare. Ha conosciuto Ferreira qualche mese prima, a Genova, in occasione di una partita fra la nazionale italiana e quella portoghese, quando il calcio aveva ancora il suo “terzo tempo” e i giocatori potevano fraternizzare a cena dopo l’incontro.
Sorride, il capitano, mentre pensa al suo amico lusitano che, in difficoltà finanziarie, riceverà l’incasso della partita organizzata in suo onore; sorride con benevolenza, il capitano, mentre osserva i suoi compagni sonnecchiare, chiacchierare o scherzare.

“Il riposo degli invincibili dentro un pomeriggio di bruma vischiosa”. Dopo essere decollato da Lisbona alle ore 9.40, l’aereo atterra a Barcellona alle 13. Riparte alle 14.50 e segue una rotta che sorvola Cap de Creus, Tolone, Nizza, Albenga e Savona. Sono le 16.55, il tempo su Torino è pessimo. Le nubi sono quasi a contatto con il suolo, la pioggia si rovescia a scrosci sulla città, il vento è fortissimo, a raffiche, la visibilità molto scarsa.
“Lo schianto, il silenzio, il silenzio, maledetto silenzio, ecco il silenzio, che si prende le vite e raggruppa e polverizza i pensieri”. Sono le 17.03 di mercoledì 4 maggio 1949, il trimotore FIAT G212 delle Avio Linee Italiane, dopo aver eseguito una virata, si mette in volo orizzontale e si allinea per prepararsi all’atterraggio, schiantandosi invece sul muraglione del terrapieno superiore della Basilica di Superga, sulla collina torinese.
Muoiono tutti. I quattro membri dell’equipaggio, i tre giornalisti al seguito, diciotto giocatori, tre dirigenti, il direttore tecnico, l’allenatore Leslie Lievesley, il massaggiatore. Trentuno persone, morte tutte in un solo dannatissimo istante.

Il Grande Torino – la squadra degli invincibili, la formazione che macinava gol e record, la compagine che regalava magie e spettacolo – non c’è più, è cancellato in uno schianto, annientato in un attimo, vinto da un fato fulmineo e maledetto.
La notizia si diffonde rapidamente, l’Italia si unisce nell’incredulità e nel cordoglio, la penisola torna al suo grigiore deprimente, al suo bianco e nero sconfortante, alle lacrime che sperava di essersi messa alle spalle, è costretta a fare i conti con una nuova, inattesa, crepa che le incide l’anima in profondità.
Ma se è vero che “in ogni cosa c’è una crepa”, è anche vero che “è proprio da lì che entra la luce”. La luce o il colore. Il colore granata. Così – dolorosamente, faticosamente – “dalla realtà di tenebra si ricava una nuova leggenda” che “ferma ogni singolo movimento e ne conserva la scia fino a generazioni di sconosciuti con gli occhi rossi”.

Così, la storia e la leggenda del Grande Torino sono arrivate fino a noi – a noi supporters granata come a tutti gli amanti del calcio – e noi le possiamo trasmettere alle generazioni future.
Ascoltando le voci degli invincibili, possiamo raccontare come quel gioco – oggi così strapagato, oltraggiato, snaturato e litigioso – possa essere ancora una volta il sogno di un ragazzino che “si farà anche se ha le spalle strette”, la magia di un movimento repentino e di un’azione folgorante, l’incanto tanto sperato di una rete che finalmente si gonfia, la combinazione esplosiva di sudore, testa e talento, una stretta di mano amichevole dopo la competizione, una tavolozza di colori a disposizione dell’anima di ciascuno.

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