Avremmo potuto chiudere la stagione di Golderby col sorriso sule labbra. Invece resta l’amaro in bocca. Avremmo potuto raccontare delizie sull’ennesimo scudetto della Juventus, raccontare come sarà formata la prossima spedizione italiana che parteciperà a Champions e a Europa league, fare l’in bocca al lupo alle squadre retrocesse, augurando loro di tornare presto nella mssima serie. Invece ci troviamo a chiudere il sipario sul licenziamento di Daniele De Rossi, emblema della Roma, romano e romanista, cuore giallorosso, capitan futuro e quel che ne consegue. Il suo divorzio dal club in mano agli yankee ha lasciato di stucco non solo i cuori giallorossi, ma anche le tifoserie avversarie, al punto che sono comparsi striscioni in molti stadi, scritte pronte ad applaudire l’antagonista di mille battaglie, quello che fra virgolette viene definito un nemico ma che poi sempre h dimostrato di essere uomo ancor prima che calciatore.

Un “hombre vertical”, come lo era Gigi Riva, per esempio. Ma se a Rombo di tuono, in Sardegna, hanno dedicato perino una statua, a Daniele De Rossi è stato dato il benservito. Dopo anni di militanza e mille battaglie, sangue e fatica regalati alla causa romanista. Sabato c’è stato l’ultimo bagno di folla a Trigoria, duecento tifosi sono andati a salutarlo. Rabbia elevata all’ennesima potenza. E le sue parole d’ora in avanti resteranno un marchio indelebile nell’animo del popolo romanista. Parole allegate a una foto, lui da bambino, e postate sul sito dell’As Roma. “Che te ridi regazzì? So’ felice! Perché sei felice? C’ho la maglietta della Roma Ma non è che è falsa? Ma no, il numero l’ha cucito mia zia… E se te dico che la indosserai più di seicento volte? A me ne basterebbe una di partita”. E poi parla il cuore: “Riguardando questa foto, che ormai conoscete tutti, mi rendo conto di quanto io sia stato fortunato, una fortuna mai data per scontata e per la quale non sarò mai abbastanza grato. È stato un viaggio lungo, intenso, sempre accompagnato dall’amore per questa squadra. Questa gratitudine non voglio lasciarla sospesa per aria, perché, mentre scrivo la parola grazie, non mi passano per la testa dei concetti astratti, ma dei ricordi e delle sensazioni, delle facce e delle voci. Permettetemi di ringraziare tutta la Roma che ho conosciuto: la famiglia Sensi, il presidente Pallotta”. Parole non scontate, visto come si è concluso il suo rapporto con la Roma: “Tutte le donne e gli uomini che hanno lavorato e lavorano a Trigoria. Gli allenatori che mi hanno guidato, ognuno mi ha insegnato qualcosa di importante, nessuno escluso. Gli staff medici che si sono presi cura di me; Damiano (Stefanini, il suo fisioterapista mandato via due mesi fa, ndr), senza il quale le mie presenze con questa maglia sarebbero state sicuramente meno. I miei compagni, la parte più intima del mio lavoro: sono la mia famiglia. La quotidianità dello spogliatoio di Trigoria sarà quella che mi mancherà di più. Bruno (Conti, ndr), che ha visto in me qualcosa di speciale e mi ha portato in questo fantastico settore giovanile. È lì che, una mattina di agosto, ho incontrato Simone e Mancio (i suoi due migliori amici, ndr), che mi sono rimasti accanto finora e resteranno per tutta la vita. Grazie a Davide (Astori, ndr), anche lui accanto a me per tutta la vita. Grazie a Francesco. La fascia che ho indossato l’ho ricevuta dalle mani di un fratello, di un grande capitano e del calciatore più straordinario al quale io abbia mai visto indossare questa maglia. Non capita a tutti di giocare 16 anni accanto al proprio idolo. Riconsegno questa fascia, con rispetto, ad Alessandro. Un altro fratello che sono sicuro ne sia altrettanto degno. Grazie a papà e mamma per avermi cresciuto trasmettendomi due valori che sono ogni giorno con me: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso e dai una mano a chi è in difficoltà.

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