Domenica 26 maggio, nel santuario della Trinità, al termine della solenne processione dedicata a Maria Santissima Liberatrice e prima della santa messa conclusiva, Antonello Ricci, accompagnato dal percussionista Roberto Pecci, narrerà lo stupefacente miracolo mariano del 1320 e la leggenda intorno a esso fiorita per sette secoli

Di Antonello Ricci

Quando qualche giorno fa ho messo giù il telefono, non ci volevo credere. Toccato nel cuore, intenerito, direi commosso. All’altro capo avevo appena goduto della leggera-cordiale calata romagnola del colto e umanissimo padre Mario. Ricevendone un invito speciale, di quelli davvero “ricordatori”. Un invito da parte del capitolo degli Agostiniani di Viterbo. Domenica 26 maggio, al termine della solenne processione che da secoli ricorda il miracolo della Madonna Liberatrice, davanti al popolo viterbese assiepato nel santuario della Trinità per la santa messa, a cospetto dello splendido e santo dipinto di primo Trecento che raffigura Maria in trono con Gesù in grembo: sarò il narratore ufficiale della leggenda dei meravigliosi fatti accaduti in Viterbo nella primavera del 1320.

Intenerito e commosso, ma soprattutto onorato. Onorato sì: perché amo e studio la leggenda di Maria Santissima Liberatrice e le sue fonti da ormai trent’anni; da sempre riconoscendovi almeno due elementi di irrisolto-magnetico fascino: da una parte, pur laico, umilmente mi par di riconoscere nel nucleo di fede del miracolo uno straordinario segno-esempio di pietas dalla assoluta attualità; dall’altra, in quanto appassionato di letteratura, la gestazione espansiva dei nuclei narrativi della leggenda – dallo splendido volgare costellato di latinismi della prima-e-coeva, stenografica annotazione registrata nelle cronache di Casa Sacchi, all’elegante italiano settecentesco, sintatticamente sinfonico-arzigogolato, della monumentale “Istoria” di Feliciano Bussi – risuona di affascinanti-carismatici riverberi sul piano squisitamente poetico e narratologico.

Domenica pomeriggio dunque, nel breve arco di una decina di minuti, affiancato, protetto e sostenuto dalle delicate sonorità percussive dell’immancabile collega e fratello Roberto Pecci, un poco sentenzierò, un poco leggerò, un poco racconterò. Di sentimenti e risentimenti, di odi e rancori, di paure e speranze, di dignità, giustizia e desideri. Di un tempo così lontano da noi eppur così vicino; di un medioevo del quale ancora e sempre siamo figli. Per lingua e per cultura. Figli turbolenti magari, ma anche orgogliosi.

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