Lo conobbi una sera all’Eat di Viterbo, Andrea Arena. Sorseggiava una birra, era venuto per assistere a uno degli spettacoli “d’epoca”, di quelli messi in scena dal sottoscritto in simbiosi con altri due “sciagurati” come me, Antonello Ricci e Alessandro Tozzi. Me lo presentò un amico comune, Silvano Petri, uno di quegli amici che se si mette in testa di portarti pubblico, fai sempre il tutto esaurito. Io, romano trapiantato nel viterbese, praticamente un pesce fuor d’acqua, parlai a lungo con quell’omone che pareva un armadio, barba e capelli neri che facevano pensare a Rasputin. Fra colleghi giornalisti s’innescò subito empatia, fatto abbastanza anomalo, perché con buona pace di chi dice che esiste uno spirito di corpo della categoria, se un “collega” ti può tagliare le gambe lo fa in un amen. Lui no, fu affabile, educato, cortese, chiese, sorrise, confermò, rimase fino alla fine dello spettacolo. Altra anomalia del personaggio, generalmente il cronista si “affaccia”, regala un quarto d’ora di pubbliche relazioni e poi se ne va senza farsene accorgere. Ecco, l’istantanea di Andrea, morto troppo giovane nelle scorse ore, per me resta quella della sera in cui il reading dedicato al calcio che fu lo fece emozionare, perché si parlava della sua squadra, la Lazio, ma anche perché vide un modo di raccontare il football diverso dai soliti stereotipi. Un paio di giorni dopo pubblicò la recensione di quella serata, che mi diede presumibilmente le stesse emozioni che a lui avevano offerto Chinaglia e Badiani, Re Cecconi e Maestrelli, il vecchio cuore biancoceleste e le gesta di una squadra da “pistole e palloni”. Ecco, credo che il miglior modo per ricordare Andrea Arena, e per farlo conoscere magari a chi non fa caso alla firma del cronista, sia quello di replicare, di seguito a queste poche righe, quella sua recensione. Nulla più da aggiungere, se non un senso di vuoto, adesso. (Massimiliano Morelli)

Laziali di ieri, di oggi e di domani per celebrare la mitica squadra del -9
di Andrea Arena
VITERBO – Si comincia così, col gol di Fiorini al Vicenza: filmato, cronaca, esultanza. Applauso secco, lungo, catartico, qualche lacrimone: i laziali sono qua. E poco importa se ventiquattro ore prima, giovedì, la loro squadra ne ha presi tre dallo Sparta Praga, scialacquando un patrimonio anche nazionale, anche morale (la Lazio era l’ultima italiana rimasta in corsa in una coppa europea): tutto, qui, è relativo, distante, fastidioso. Soprattutto il presente, sopratutto la cronaca. In questo posto – all’Eat di via San Lorenzo – contano altri discorsi, tra una Margherita e un fritto, tra una birra e altre diecimila. Qui conta la lazialità, passaporto dell’anima.

Sono molto più di cento, per questa serata dedicata alla Lazio del -9 (meno nove, meno 9) raccontata da I Maritozzi, il multiforme trio composto da Alessandro Tozzi (avvocato, autore anche del testo), Massimiliano Morelli (giornalista) e Antonello Ricci, genio del luogo, nonché travolgente istrione, che si parli di antichi papi e di vecchie puttane o di arbitri prevenuti e di menischi saltati. Dietro le quinte, a vigilare e soffrire dentro come sempre, c’è Silvano Petri, the king, il direttore, il presidente: quello che insomma ha creato tutto questo. E che detta la linea: ”E’ in momenti come questi che si vede il vero laziale”.
Ora, il gol di Fiorini. Con la panza, quella finta, quel dito alzato al cielo. Salvò la Lazio dalla retrocessione in C diretta e la spedì agli spareggi, nell’estate caldissima del 1987. Dicono le cronache che in quel giorno, all’Olimpico non ancora stuprato dai lavori per i Mondiali, ci furono diversi attacchi di cuore, gente ricoverata d’urgenza, forse anche qualche morto: naturale, vista la posta in palio, e l’assedio al portiere berico Dl Bianco. Poi arrivò il gol, Giuliano Fiorini, e alla fine la certezza che la Lazio non era ancora morta, non era finita in serie C per la prima volta nella sua lunga storia, ma che si sarebbe giocata la salvezza in serie B agli spareggi, con Taranto e Campobasso. A Napoli.
Guardi le facce, oggi, di avvocati e di commercialisti, imprenditori, di professionisti come i fratelli Ascenzi (Guglielmo, avvocato, e Raffaele, architetto e genio della Macchina di Santa Rosa) e pensi di chiedere alla dolcissima cameriera se c’è un defibrillatore nei paraggi. O almeno una pinta di quella forte. Sì, è in momenti come questi che si vede il vero laziale.
Si piange, si pensa, ripercorrendo quella stagione straordinaria, ”l’ultima vera storia da raccontare di un calcio che non c’è più”, dice Antonello Ricci. La retrocessione in C annunciata dal Tg2 in una sera d’estate, causa una sentenza per un calcioscommesse minore che oggi farebbe sorridere. I cortei e gli scontri. La riduzione della condanna a 9 punti di penalizzazione in serie B, che comunque all’epoca (coi 2 punti per vittoria) erano comunque una sentenza. L’allenatore Eugenio Fascetti che invita, sin dal primo giorno, i giocatori non convinti ad andarsene altrove (per la cronaca: non se ne andò nessuno). L’inizio in salita. Le polemiche. I soldi che non bastavano mai. Lo stesso Fascetti che ribadisce il concetto: ”Quando si parla di salvezza, se devo picchiare la mi’ moglie lo faccio”. E nomi e gol e racconti e poi Napoli, certo.
”Io c’ero”, dicono in diversi dalla platea. Il megaingorgo sull’autostrada, i quarantamila al San Paolo, la sconfitta col Taranto (”Il gol di De Vitis era in fuorigioco, l’unico a non ammetterlo fu il telecronista della Rai, notoriamente romanista”). E poi il Campobasso, il gol di Fabio Poli. Su cross di Massimo Piscedda, che è qui, seduto a mangiarsi una pizza con un amico, e verrebbe da baciargli il piede, o accarezzarlo come si fa per certe madonne nel sud. Oggi vive da queste parti, è il commissario tecnico della Under 21 di B, lo stesso stile di sempre. Sale sul palco, ringrazia, abbraccia Alessandro Rossi e Francesco Manoni (viterbesi, punti di forza della Lazio Primavera che oggi giocherà al Rocchi in amichevole contro la Viterbese). Dice: ”Fiorini? Diciamo che si allenava poco, meno di noi, ma era un amico vero”. Morto nel 2005 a Bologna, un altro laziale lasciato per strada, come Re Cecconi e Frustalupi, Chinaglia e Maestrelli.
Viene da piangere, a questa Viterbo laziale che ha riempito un locale soltanto per celebrare il passato, senza pensare al presente (anche se i fischi a Lotito non sono mancati), neanche osando di immaginarsi il futuro. Il tempo passa, le vittorie e le sciagure pure, ma i laziali sono qua. E col veleno.

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