Il 3 settembre saranno passati sessant’anni dall’oro olimpico di Livio Berruti nei 200 ai Giochi di Roma 1960: per sempre una delle maggiori imprese dello sport italiano.

Per molti Livio Berruti è una foto in bianco e nero scattata il 3 settembre 1960, sessant’anni fa: se tagliata verticale mostrava un giovanotto con occhiali scuri che, solo, tagliava il traguardo o spezzava il filo di lana, come usava dire. Se la foto era appena più larga, offriva un americano (Les Carney) che stava rinvenendo. Troppo tardi. Un decimo o sette centesimi, 20.5 a 20.6, 20.62 a 20.69, a seconda del cronometraggio manuale o elettrico.

È passata alla storia come l’impresa che ha segnato un’esistenza, l’atletica italiana e lo sport azzurro grazie al semplice schema che la governa e che esclude l’introduzione di inutili parametri: Berruti, due record del mondo in un paio d’ore, battendo in semifinale i tre primatisti, conquistando la medaglia d’oro – primo europeo, primo mediterraneo dopo dieci americani e due canadesi – in quella che i puristi e gli studiosi ritengono a ragione la cellula formativa dello sport antico e moderno. Lo “stadio”, poco meno di 200 metri, era nei primi Giochi l’unico terreno di contesa tra i giovani greci e i “coloniali” che venivano da oltremare.

Berruti è quella foto, e per molti italiani che in quei giorni e per quei Giochi romani si erano dotati di un apparecchio televisivo fu una piacevole sorpresa, un motivo d’orgoglio. Ma tanti del compìto giovanotto, studente in chimica, sapevano abbastanza poco. Ne sapevano a sufficienza i “suiveur” di Track and Field News che alla fine di un 1959 densissimo di gare lo inserirono al secondo posto nel ranking dei 200, alle spalle di Ray Norton. Buona parte della promozione alle zone più nobili dipese dalla vittoria netta di Livio l’8 agosto a Malmoe. Sino a quel momento, 4-0 per Norton, tre sui 100 e una sui 200. Magnifica curva, impervia per Ray: 20.8 contro 21.0. Per Livio, record italiano con curva completa: a quel tempo diverse piste avevano sviluppi maggiori.

A questo punto è bene approfittare del prezioso libro di Claudio Gregori (“Livio Berruti, il romanzo di un campione e del suo tempo”) per offrire un virgolettato molto significativo: “Lì mi è venuta la prima idea, sia pure assai labile, di vittoria olimpica. Avevo capito che la mia forza era la curva. La leggerezza e la scioltezza mi permettevano di affrontarla meglio di chiunque altro. Opposto a un atleta di potenza come Norton potevo vincere obbligandolo a seguirmi e facendolo imballare nel tratto iniziale”.

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